Unione Nazionale Consumatori Umbria | La responsabilità del produttore: tra Europa e Italia
Alla luce degli scandali degli ultimi anni che hanno coinvolto imprese operanti nel mercato alimentare  si è sempre più reso necessario guardare con attenzione alla sicurezza degli alimenti prodotti e consumati nei nostri territori. Lo facciamo con Damiano Marinelli e William di Mauro.
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La responsabilità del produttore: tra Europa e Italia

La responsabilità del produttore: tra Europa e Italia

Alla luce degli scandali degli ultimi anni che hanno coinvolto imprese operanti nel mercato alimentare  si è sempre più reso necessario guardare con attenzione alla sicurezza degli alimenti prodotti e consumati nei nostri territori.

Le profonde trasformazioni dell’industria alimentare e le accresciute capacità delle scienze mediche di individuare nessi causali tra il consumo di determinate sostanze e l’insorgere di patologie, hanno imposto al legislatore di intervenire nella materia della c.d. sicurezza alimentare mettendo in atto sistemi articolati e complessi tesi a tutelare la salute dei consociati.

Preso atto che quest’ultimo obiettivo viene perseguito, da un lato, mediante disposizioni di natura pubblicistica e di carattere preventivo, mentre, dall’altro, dalle disposizioni in materia di responsabilità civile, sembra utile accertare se il consumatore di alimenti trovi maggiore tutela nelle prime o nelle seconde.

In particolare è da verificare se le due prospettive di tutela di salute, ossia quella pubblicistica e quella risarcitoria, possano essere integrate in modo unitario, indagando se la normativa sulla sicurezza alimentare possa influenzare la lettura della normativa in materia di responsabilità civile. In tale modo si risolverebbe il dubbio se la conformità ai c.d. standard di sicurezza sia sufficiente per escludere la responsabilità del produttore oppure se tale circostanza rappresenti esclusivamente un livello minimo di sicurezza il cui rispetto non esime il produttore da responsabilità.

Prima dell’introduzione della direttiva comunitaria 85/374/CEE relativa al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, mancavano, all’interno dei vari paesi europei, delle disposizioni specificatamente dirette a disciplinare i casi di danni cagionati dall’utilizzo di prodotti difettosi e, proprio per tali ragioni, all’interno dei vari Paesi, si erano sviluppati diversi orientamenti finalizzati a rendere effettiva la tutela del consumatore nelle ipotesi di danni cagionati da prodotti difettosi.

In mancanza di una normativa che disciplinasse la materia in esame e al fine di dividere nel modo più economico possibile i costi derivanti dalle conseguenze dannose della commercializzazione di prodotti non sicuri, si faceva ricorso alle norme di diritto privato, e in particolare, o alle regole sulla responsabilità del debitore, oppure a quelle sulla responsabilità da fatto illecito.

Solo il Lussemburgo aveva esteso, fin da principio, la disciplina di attuazione della direttiva, e di conseguenza il regime di responsabilità oggettiva, anche ai prodotti agricoli.

Con riferimento agli altri Paesi europei, invece, solamente con la direttiva 1999/34/CE del 10 maggio 1999 (recepita in Italia con il d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 25) la normativa comunitaria in tema di responsabilità del produttore per i danni cagionati da prodotti difettosi, è stata definitivamente modificata: in tale sede, infatti, si è introdotto un sistema di responsabilità oggettiva anche a carico dell’agricoltore, allevatore, pescatore e cacciatore per i difetti dei prodotti del suolo, dell’allevamento, della caccia e della pesca.

La problematica della responsabilità del produttore coinvolse prima il Consiglio d’Europa che, spinto dall’esigenza di assicurare la più ampia tutela a favore dei consumatori, elaborò una Carta dei diritti fondamentali e, con la risoluzione del 17 maggio 1973 n. 543, aveva invitato i singoli Paesi ad adeguarsi alle regole presenti nella Carta e a emanare provvedimenti legislativi diretti a predisporre strumenti giuridici finalizzati a tutelare il consumatore, e successivamente la Commissione della Comunità Europea. Quest’ultima, nel 1975, aveva predisposto un primo progetto di direttiva finalizzata ad uniformare la normativa in tema di circolazione dei prodotti difettosi all’interno del mercato comune.

Tuttavia, le proposte presentate dalla Commissione della Comunità Europea sono sempre state oggetto di accese discussioni all’interno dei vari ordinamenti perché, sulla base del Trattato CEE, la direttiva, una volta approvata, diveniva vincolante per i singoli Stati membri, con il conseguente obbligo per quest’ultimi di introdurre, all’interno dei vari ordinamenti, regole conformi ai princìpi introdotti dal testo comunitario.

Le critiche più accese riguardavano non tanto il contenuto del documento, ma l’opportunità di assoggettare a direttiva un materia che non avrebbe dovuto essere regolata a livello comunitario. Allo stesso tempo emergevano dubbi sull’opportunità di imporre alle imprese europee un regime di responsabilità che poteva comportare conseguenze particolarmente onerose e si evidenziava come l’introduzione nel settore della responsabilità del produttore di un sistema giuridico completamente nuovo che si affiancava alle regole nazionali vigenti avrebbero potuto essere fonte di maggiore confusione in un settore in cui la chiarezza era, invece, indispensabile affinché i consumatori stessi fossero incentivati a fare valere i propri diritti.

La direttiva relativa al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi fu approvata il 25 luglio 1985 dalla Comunità Europea (85/375/CEE).

Secondo l’orientamento maggioritario della dottrina, la responsabilità introdotta dal legislatore comunitario consisterebbe in una responsabilità di tipo oggettivo e non già in una responsabilità per colpa presunta, atteso che il presupposto della suddetta responsabilità consiste nella sussistenza del difetto, a nulla rilevando il fatto che il produttore abbia posto in essere un comportamento colposo.

Tale posizione interpretativa sembrava conforme con la Relazione della Commissione di studio istituita presso il Ministero della Giustizia con l’intento di porre in essere uno schema di attuazione della direttiva medesima; in tale occasione si evidenziava come la responsabilità introdotta del testo comunitario fosse di tipo oggettivo, a differenza, invece, della responsabilità per colpa che veniva considerata una soluzione inadeguata alla problematica in esame.

Tramite il predetto sistema di responsabilità si voleva introdurre uno strumento mediante il quale dare concretezza a quello che doveva essere l’obiettivo reale della direttiva, ossia la tutela del consumatore. Dato il deficit d’informazione del consumatore, si riteneva che il produttore fosse nella posizione migliore per prevenire, o ridurre, i rischi e, inoltre, che tale sistema avrebbe dato la possibilità di distribuire tra i consumatori i costi addizionali derivanti dall’assunzione dei medesimi attraverso manovre sui prezzi dei prodotti stessi.

Focalizzando l’attenzione sull’ambito materiale di applicazione del testo comunitario, occorre considerare come, ai sensi dell’art. 1 della normativa in esame, il produttore è responsabile per i danni causati da difetti dei suoi prodotti e per prodotto, specifica il legislatore, s’intende anche l’elettricità.

Solo con la direttiva 1999/34/CE del 10 maggio 1999 la normativa comunitaria in tema di responsabilità del produttore per i danni cagionati da prodotti difettosi, è stata definitivamente modificata, introducendo un sistema di responsabilità oggettiva anche a carico dell’agricoltore, allevatore, pescatore e cacciatore per difetti dei loro prodotti. In questo modo, la posizione del rivenditore o venditore al dettaglio, che prima rischiavano di dovere sopportare il peso del risarcimento per i danni subiti dai consumatori, veniva alleggerita; una simile soluzione pareva, inoltre, porsi in linea con i riflessi che sul mercato agricolo poteva avere il crescente sviluppo tecnologico, soprattutto della biochimica e della biotecnologia, nonché con il crescente degrado ambientale il quale finiva per rendere altamente pericoloso anche il prodotto agricolo non trasformato.

Di conseguenza, la normativa comunitaria responsabilizza non soltanto il fabbricante del prodotto finito, bensì anche chi produce la materia prima o un suo componente e chiunque apponga il proprio nome, marchio, segno distintivo, presentandosi come produttore del bene stesso.

Accanto al produttore, risponde dei danni cagionati dalla produzione e commercializzazione dei prodotti difettosi anche colui che importa all’interno della Comunità europea il bene difettoso; così procedendo, il legislatore comunitario esprime l’intenzione di salvaguardare il consumatore, «rinsaldare la sicurezza intrinseca e, quindi, l’efficienza» del mercato europeo, considerato nel suo complesso come un unico mercato senza barriere interne, in cui la garanzia di sicurezza e di piena compensazione dei difetti derivanti da un bene penetrato nel mercato comunitario, «corrano con la merce» ovunque la merce vada nella Comunità.

È ovvio che, in conformità dei princìpi della responsabilità oggettiva, il consumatore danneggiato, qualora intenda ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’utilizzo di prodotti difettosi, abbia l’onere di provare il danno, il difetto e la connessione causale (art. 4).

In particolare dovrà dimostrare che il prodotto non offra la sicurezza che ci si può legittimamente attendere e tale legittima aspettativa deve poi essere considerata alla luce delle circostanze concrete (art. 6, lett. a, b, c) l’uso a cui il prodotto stesso può essere ragionevolmente destinato nonché il momento della sua messa in commercio.

Proprio con riferimento alla suddetta nozione, occorre considerare, in termini generali, come questa sia volta alla realizzazione di quel programma europeo diretto ad assicurare la c.d. «sicurezza globale» dei prodotti; il legislatore comunitario, infatti, ha posto in essere un sistema finalizzato a tutelare il consumatore sia preventivamente, attraverso l’elaborazione di precisi standards di sicurezza riferibili al momento della progettazione, della fabbricazione e della presentazione del prodotto, sia successivamente al verificarsi del danno, tramite la predisposizione di disposizioni legislative dirette a risarcire il danno subito dal consumatore danneggiato a causa dell’utilizzo di prodotti difettosi.

In altri termini, il legislatore finisce per mettere insieme tanto la soluzione «giusprivatistica» quanto quella «giuspubblicistica» che il legislatore europeo ha attuato in questi anni con una serie di importanti interventi legislativi.

Lo nozione di difetto si basa sul concetto di sicurezza la quale, peraltro, non deve essere confusa con l’inidoneità del prodotto alle funzioni a cui lo stesso è destinato, in quanto l’inidoneità funzionale del bene può anche non riguardare la sicurezza, mentre la mancanza di sicurezza incide necessariamente sull’idoneità all’uso; proprio per tali ragioni, è stato affermato che il difetto di sicurezza è un concetto più restrittivo del vizio funzionale.

La direttiva comunitaria del 25 luglio 1985, n. 374 è nata all’insegna della necessità di realizzare il riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per i danni cagionati da prodotti difettosi.

L’esigenza di predisporre regole uniformi in materia di responsabilità del produttore rispondeva allo specifico bisogno di eliminare le disparità normative esistenti all’interno dei singoli Stati le quali, infatti, potevano contribuire a falsare il gioco della concorrenza e pregiudicare la libera circolazione delle merci all’interno del mercato comune, determinando, peraltro, disparità nel grado di protezione del consumatore contro i danni causati alla salute e ai suoi beni da un prodotto difettoso.

La direttiva, tuttavia, oltre a perseguire il suddetto obiettivo di riavvicinamento delle legislazioni nazionali in materia di danni derivanti da prodotti difettosi, doveva anche rispondere alla finalità di tutelare le ragioni dei consumatori.

Ciononostante, analizzando soprattutto recenti decisioni della Corte di giustizia emerge come, in realtà, si sia voluto favorire il processo di armonizzazione delle diverse discipline nazionali a discapito, invece, dell’esigenza di apprestare una maggiore tutela al consumatore danneggiato.

In realtà, la pronuncia più importante diretta a testimoniare come la stessa Corte di giustizia tenda, di fatto, a favorire un’interpretazione formalistica della stessa direttiva finalizzata a garantire l’effettivo riavvicinamento delle legislazioni dei singoli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi anche a discapito del perseguimento dell’effettivo interesse del consumatore, è quella concernente un caso di rinvio pregiudiziale da parte dell’Autorità giudiziaria spagnola.

In tale occasione, infatti, la Corte di giustizia ha chiarito, una volta per tutte, la “vera identità” della disciplina comunitaria introdotta nel 1985 e, attraverso tale decisione, la stessa Corte di giustizia, ha specificato, come, proprio ai fini di perseguire l’obiettivo dell’armonizzazione, la tutela del consumatore non possa essere rafforzata dai singoli Stati membri al momento della recezione della direttiva medesima, atteso che – secondo i giudici lussemburghesi – la soglia di protezione fissata dal Consiglio d’Europa non può essere certamente superata dall’autonomia legislativa dei singoli Paesi membri.

In tale sede, dunque, la Corte di giustizia ha affermato che, proprio al fine di attuare il massimo livello di armonizzazione, ogni “passo in avanti dei singoli legislatori nazionali volto ad assicurare una maggiore protezione della posizione del consumatore deve essere immediatamente fermato”, atteso che, diversamente ragionando, ossia ammettendo la possibilità per i legislatori dei

singoli Stati membri di derogare alla direttiva in modo da tutelare maggiormente il consumatore, tale atteggiamento ostacolerebbe quel processo di armonizzazione del diritto della responsabilità civile nel settore della produzione dei prodotti di consumo. Secondo la Corte di giustizia, infatti, la direttiva non rappresenta solamente un armonizzazione minima delle legislazioni degli Stati membri che consente a questi ultimi di mantenere disposizioni ancor più favorevoli in materia di tutela dei consumatori in tale ottica, dunque, l’art. 13 (ai sensi del quale, appunto, la direttiva lascia impregiudicati i diritti che il danneggiato può esercitare in base al diritto relativo alla responsabilità contrattuale o extracontrattuale o in base ad un regime speciale di responsabilità esistente al momento della notifica della direttiva) del testo comunitario assicura soltanto la sopravvivenza di regimi generali di responsabilità fondati su elementi diversi (in particolare sull’imputazione per colpa, la garanzia dei vizi occulti) e di regimi speciali limitati ad uno specifico settore produttivo.

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, è evidente come, attraverso le pronunce citate, l’interesse dei consumatori viene posto in secondo piano rispetto alla principale e prioritaria necessità di perseguire il riavvicinamento delle legislazioni nazionali in materia di responsabilità per danni da prodotti difettosi; seguendo il ragionamento dei giudici di Lussemburgo, infatti, i consumatori stessi non possono più contare sulla sopravvivenza di legislazioni nazionali in grado di

assicurare un adeguato livello di tutela in tutte le ipotesi in cui tali legislazioni sono dirette a disciplinare la medesima materia regolata dalla direttiva.

Sotto questo specifico profilo la soluzione accolta dalla Corte di giustizia non sembra del tutto condivisibile, atteso che ritenere che a livello interno la tutela del consumatore non può trovare una maggiore protezione rispetto a quella prevista dalla direttiva, oltre a non porsi in linea con quanto disposto nei considerando del testo comunitario stesso (nonché con la medesima trama precettiva della direttiva, nella quale si rinvengono, infatti, precisi riferimenti dai quali desumere la diretta rilevanza della tutela del consumatore rispetto alla difettosità del prodotto), sembra contrastare anche con la generale tendenza delle stessa Corte di giustizia sempre più diretta ad affermare una difesa a tutto campo della tutela consumeristica. Inoltre, è stato evidenziato come, se le direttive che riguardano la tutela degli interessi contrattuali dei consumatori, le quali avevano la medesima finalità di tutela della c.d. parte debole (ossia il consumatore), all’epoca delle sentenze della Corte di giustizia del 2002 contenevano già la c.d. clausola dell’armonizzazione minima (con la conseguenza che, il legislatore comunitario attribuiva ai singoli Stati membri la possibilità di decidere se mantenere o introdurre ulteriori deroghe a vantaggio dei consumatori), si doveva ritenere che anche allora sussistevano già i presupposti per un’interpretazione evolutiva della direttiva in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi che legittimasse ampliamenti di tutela a vantaggio del consumatore medesimo.

Dal punto di vista pratico, poi, l’interpretazione accolta dalla Corte di giustizia – caratterizzata, appunto, da un “eccessivo formalismo” – causava rilevanti problemi soprattutto in quegli Stati membri in cui veniva favorito “un approccio più spiccatamente consumerista”.

In conformità con il principio di responsabilità oggettiva si limita l’onere della prova del danneggiato al danno, ad un difetto del prodotto e alla connessione causale tra il primo e il secondo.

Come sopra descritto, si dichiara difettoso ai sensi della direttiva il prodotto che non offra la sicurezza che ci si può aspettare legittimamente; tale legittima aspettativa va valutata alla luce delle circostanze concrete, indicate dalla direttiva all’art. 6 lett. a), b), c): la presentazione del prodotto, l’uso cui il prodotto può essere ragionevolmente destinato e il momento della sua messa in circolazione.

In conformità con il considerando n. 11, si esclude possa dirsi difettoso il prodotto reso semplicemente desueto o meno funzionale dal paragone con quelli successivi, più sviluppati e moderni.

Attorno a tale nozione è imperniata la normativa portata dalla direttiva. A sua volta la nozione si fonda sul concetto di sicurezza che pertanto è «certainement la notion fondamentale du regime institué par la directive». La sicurezza non si confonde con l’inidoneità del prodotto alle funzioni cui lo stesso è destinato. Si è inoltre ricordato come l’inidoneità funzionale possa anche non riguardare la sicurezza, mentre l’assenza di sicurezza influisce necessariamente sull’idoneità all’uso, a motivo di che si afferma che il difetto di sicurezza è un concetto più restrittivo del vizio funzionale.

La legittima aspettativa di sicurezza dei prodotti è stata risolta dal sesto considerando, in base al quale la mancanza di sicurezza cui la direttiva si riferisce è quella valutata rispetto al grande pubblico.

Per valutare il grado di sicurezza offerto, che rappresenta il passaggio logico preliminare per la valutazione di difettosità, l’art. 6 indica come rilevanti la presentazione del prodotto, l’uso ragionevole di destinazione e il momento della sua messa in circolazione.

Con riferimento alla prima circostanza essa vale ad obiettivare la nozione di sicurezza in relazione alla legittima aspettativa. In altri termini, quando la norma fa riferimento allo stato dell’arte per escludere la difettosità del prodotto laddove un prodotto più perfezionato sia stato messo in commercio in qualunque tempo, essa si riferisce agli standard produttivi, i quali non possono costituire un parametro della legittima aspettativa del pubblico in quanto essi scontano la posizione sul mercato dell’impresa produttrice.

Con riferimento alla seconda circostanza, il principio di ragionevolezza riferito all’uso atteso del prodotto sembra richiamare un giudizio di prevedibilità (vertente sull’uso della cosa) che travalica la mera «destinazione normale» e utilizzazione normale del prodotto (come il giocattolo per bambino, non certo destinato alla suzione, che non offre garanzie di sicurezza se pitturato con vernice tossica, in quanto il rischio di ingestione di essa è facilmente prevedibile, e quindi ragionevolmente atteso). Il terzo ordine dei fattori da considerare nel giudizio di difettosità si sostanzia in ciò che la direttiva non applica gli standard di sicurezza di oggi ai prodotti di ieri.

Di conseguenza gli eventi esonerativi della responsabilità del produttore, la cui prova incombe sul produttore stesso, sembrano essere i seguenti: non avere messo in circolazione il prodotto; non averlo fabbricato per la vendita né averlo fabbricato o distribuito nel quadro di una attività professionale; averlo fabbricato in conformità a regole imperative emanate dai pubblici poteri; in conformità alle istruzioni date dal produttore del prodotto completo; dipendenza del difetto dalla concezione globale del prodotto completo cui la parte componente era destinata.

La causa di esonero particolarmente rilevante corrisponde al difetto derivante dal c.d. rischio di sviluppo, mentre quella relativa all’insorgenza del difetto successiva alla messa in circolazione fa riferimento ad un momento in cui il potere di controllo dell’imprenditore fabbricante era già cessato.

È vero che intendendosi il difetto come mancanza della sufficiente sicurezza, stabilire che il produttore possa esonerarsi da responsabilità provando l’assenza del difetto al momento della messa in circolazione del bene equivale a richiedere all’imprenditore la prova che in quel momento il bene era sufficientemente sicuro.

Nell’ipotesi in cui il difetto, cioè l’insufficiente sicurezza sia emersa successivamente in termini comparativi rispetto a standard di sicurezza progressivamente raggiunti, ed assurti a normalità più vanti nel tempo, tale opinione appare senz’altro condivisibile.

Tuttavia, nell’ipotesi in cui il difetto successivamente insorto sia costituito da una improvvisa diminuzione del tasso di sicurezza rispetto agli standard già prefissati al momento della messa in circolazione, la ratio dell’esclusione della responsabilità appare doversi ricondurre al venire meno di ogni potere di controllo del produttore sul bene oramai circolante, e quindi all’assenza di alcuna ragione giustificatrice dell’attribuzione della responsabilità ancora a carico del produttore. In tale caso l’oggetto della prova liberatoria da fornirsi da parte del produttore si avvicinerà invece di molto al caso fortuito.

In effetti in tutti i casi in cui il danno derivi da un difetto intrinseco del prodotto tale che in ogni caso il suo utilizzo avrebbe avuto per effetto il verificarsi del danno, qualora tale dipendenza causale venga accertata più avanti nel tempo grazie a nuove scoperte scientifiche, lo «sviluppo» non sembra attenere allo standard di sicurezza del prodotto ma agli strumenti conoscitivi per scoprirne la difettosità. Se la ratio della norma che esclude la responsabilità del produttore per rischi da sviluppo è quella di raggiungere una soluzione equa, poiché sarebbe ingiusto responsabilizzare il produttore solo perché le norme di sicurezza diventano più rigorose, mentre le conoscenze tecnologiche e scientifiche migliorano, allora sembra che la revisione normativa abbia di mira lo standard comportamentale del potenziale danneggiato: non sarebbe giusto responsabilizzare il produttore per un danno verificatosi perché i consumatori «di oggi» si sono già abituati ad un minore standard di diligenza nell’utilizzo del prodotti rispetto a quello adottato dai consumatori di una volta. È proprio e soltanto con riferimento a tali ipotesi che la stessa espressione «rischi di sviluppo» può accettersi come corretta: si tratta infatti di valutare l’imputazione di rischi di danni che potranno prodursi nel futuro a causa di un «abbassamento della guardia», di un diminuito tasso di attenzione, ingenerato nel grande pubblico da più alti standard di sicurezza. Mentre l’espressione appare impropria quando la si riferisce all’ipotesi di prodotti che si scopre successivamente essere stati fin dall’inizio addirittura pericolosi.

Fermo restando quanto precede, occorre osservare come, nonostante la specifica finalità perseguita dalla direttiva il testo comunitario non ha portato alla totale armonizzazione dei sistemi esistenti nei diversi Paesi.

Il mancato raggiungimento di una completa armonizzazione tra le normative nazionali ha determinato, dal punto di vista dei consumatori, la presenza di una tutela disomogenea all’interno dello stesso «spazio» economico europeo, mentre per quanto concerne gli interessi dei produttori, tale circostanza ha dato vita, all’interno dei singoli Stati membri, a profonde differenze in tema di rischi delle imprese connessi alla produzione e commercializzazione dei loro prodotti.

Tale mancata armonizzazione è dipesa da almeno due ordini di fattori. Secondo il primo, essa è conseguente allo stesso art. 13 della direttiva in esame, il quale lascia impregiudicati i diritti che il danneggiato può esercitare in base alla disciplina relativa alla responsabilità contrattuale o extracontrattuale oppure ancora in forza di un regime speciale di responsabilità esistente al momento della notifica della direttiva. In base al secondo ordine di fattori, la mancata armonizzazione è dipesa anche dalle c.d. disposizioni opzionali presenti all’interno del testo della direttiva. In base a questo profilo specifico è dato rilevare come la possibilità di includere un limite massimo di risarcimento non sia stato esercitato in tutti gli Stati membri. Inoltre, ai sensi dell’art. 7 lett. e) della direttiva, occorre osservare, come alcuni Stati hanno recepito la causa di esclusione della responsabilità del produttore per rischio di sviluppo (come, per esempio, l’Italia) mentre in altri non è prevista nella legislazione di attuazione e in altri ancora tale clausola di esclusione della responsabilità non è stata recepita solamente con riferimento a particolari categorie di prodotti.

Una circostanza che ha contribuito al mancato raggiungimento di una disciplina uniforme sulla responsabilità del produttore per danni cagionati da prodotti difettosi è rappresentata dalle differenti modalità con cui la direttiva comunitaria è stata attuata e interpretata dagli Stati membri.

In un simile contesto, decisivo è stato l’intervento della Corte di Giustizia che è intervenuta in diverse occasioni non solo al fine di richiedere la ratifica della normativa attuativa nazionale incompatibile con le disposizioni della direttiva stessa, bensì anche per chiarire i termini del testo comunitario medesimo, contribuendo, così alla realizzazione di quel processo che è stato definito di «armonizzazione progressiva».

Tuttavia, nonostante la direttiva non abbia raggiunto il suo obiettivo, essa rappresenta, oggi, una misura di «armonizzazione massimale» che contribuisce ad aumentare il livello di sicurezza dei prodotti commercializzati nell’Unione Europea e che garantisce l’equilibrio tra gli interessi dei consumatori e quelli dei produttori.

Inoltre è da ricordare come se, all’inizio l’impatto della normativa sulla responsabilità del produttore è stata di gran lunga inferiore alle aspettative, con la conseguenza che, l’introduzione della responsabilità oggettiva non ha rappresentato, di fatto, un significativo rafforzamento della posizione degli stessi consumatori danneggiati, negli ultimi tempi, invece, si è registrata una vera e propria inversione di tendenza a seguito della quale si è assistito ad un importante incremento nell’applicazione della disciplina relativa alla responsabilità del prodotto.

In una prima fase di attuazione della direttiva, tutti gli Stati membri, ad eccezione del Lussemburgo, come sopra accennato, avevano escluso l’applicabilità del regime di responsabilità oggettiva ai prodotti agricoli in quanto si riteneva che detti beni, così come i prodotti dell’allevamento, della caccia e della pesca, erano «a tal punto strutturalmente fungibili che la pressione collegata all’operatività della regola della responsabilità oggettiva avrebbe gravato unicamente sul venditore e non sul produttore».

Inoltre si riteneva che la direttiva n.374/85 non fosse diretta al mercato agricolo poiché tale settore «non avrebbe potuto essere gravato di rilevanti oneri risarcitori già per la nota ed intrinseca debolezza rispetto al mercato industriale».

In base a tale posizione l’agricoltore, l’allevatore, il pescatore e il cacciatore potevano essere chiamati a rispondere solo per responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c.

Tuttavia, con la direttiva 1999/34/CE del 10 maggio 1999 si è modificata la direttiva n. 374/1985 e il Consiglio d’Europa ha sancito la responsabilità oggettiva anche a carico di queste categorie di produttori.

La ragione principale di una simile inversione di tendenza è riconducibile all’esigenza di alleggerire gli oneri risarcitori posti a carico dei rivenditori o venditori al dettaglio atteso che, sulla base della precedente normativa, spettava proprio a questi ultimi risarcire i consumatori dei danni a loro cagionati a causa della presenza di un difetto nel prodotto.

Parte della dottrina ha comunque osservato come, anche successivamente a tale cambiamento, salvo ipotesi di vendita diretta, restava alquanto difficile individuare il singolo soggetto agricoltore, allevatore, cacciatore e pescatore in tutte le ipotesi in cui non veniva indicato sul prodotto il suo nome, marchio o segno distintivo, con la conseguenza che la responsabilità del produttore diventava, in questi casi, la responsabilità del distributore al dettaglio.

La disciplina relativa alla responsabilità del produttore è stata introdotta nel nostro ordinamento attraverso il d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224. Successivamente è stato abrogato dall’art. 146 d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 inserendo le norme in materia di responsabilità del produttore negli artt. 114 e 127 del citato decreto, conosciuto meglio come Codice del Consumo.

Nello specifico, l’art. 114 d.lgs. n. 206/2005 riproduce quasi testualmente l’art. 1 della direttiva, confermando l’imputazione oggettiva della responsabilità in capo al produttore e gli altri soggetti che possono eventualmente essere chiamati a risarcire il danno subito.

La nozione di prodotto è stata fedelmente mutuata dalla direttiva comunitaria riservandola nell’art. 115 del Codice del Consumo: «prodotto, ai fini del presente titolo, è ogni bene mobile, anche se incorporato in altro bene mobile o immobile. Si considera prodotto anche l’elettricità».

Per la definizione di bene mobile occorre, invece, fare riferimento all’art. 812 c.c. in forza del quale «Sono beni immobili il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio, e in generale tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo. Sono reputati immobili i mulini, i bagni e gli altri edifici galleggianti quando sono saldamente assicurati alla riva o all’alveo e sono destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione. Sono beni mobili tutti gli altri beni». All’interno della categoria vanno ricompresi anche i beni mobili registrati tranne che vi siano disposizioni speciali (art. 815 c.c.).

Resterebbero esclusi i beni immobili che, tuttavia, vengono presi in considerazione dalla Corte di Giustizia la quale interpreta la nozione di prodotto in modo estensivo.

Infine si escludevano i prodotti agricoli del suolo e quelli dell’allevamento, pesca e caccia che non avessero subito trasformazioni. Tuttavia, successivamente alla crisi della c.d. mucca pazza, la direttiva CE 99/34 del 10 maggio 1999 ha imposto agli Stati membri di estendere il campo di applicazione del principio di responsabilità oggettiva ai prodotti agricoli primari non trasformati chiarendo, all’art. 2, che il produttore «è il fabbricante del prodotto finito o di una sua componente, il prodotto della materia prima, nonché, per i prodotti agricoli del suolo e per quelli dell’allevamento, della pesca e della caccia, rispettivamente l’agricoltore, l’allevatore, il pescatore e il cacciatore».

Dettagliata risulta essere anche la definizione di fornitore contenuta nell’art. 116, il quale dispone che «quando il produttore non sia individuato, è sottoposto alla stessa responsabilità il fornitore che abbia distribuito il prodotto nell’esercizio di un’attività commerciale, se ha omesso di comunicare al danneggiato, entro il termine di tre mesi dalla richiesta, l’identità e il domicilio del produttore o della persona che gli ha fornito il prodotto». Attraverso una simile disposizione, sembra che il legislatore voglia incentivare i rivenditori, al fine di evitare che questi debbano rispondere personalmente, ad organizzarsi in maniera tale da essere sempre in grado di individuare il produttore o il soggetto intermediario che si pone come precedente anello della catena distributiva.

Pertanto si è voluto equiparare il fornitore al produttore non già da un punto di vista tecnico, ma sotto il profilo della responsabilità, in quanto anche il primo, in caso di mancata identificazione del produttore, potrà essere chiamato a risarcire eventuali pregiudizi subiti dal consumatore.

Per quanto riguarda i legittimati a pretendere il risarcimento dal produttore del bene difettoso, devono essere ricompresi non solamente gli utenti, ma anche coloro che sono stati danneggiati dal bene difettoso in conseguenza dell’uso da parte di altri, come per esempio, coloro che, pur non essendo utenti, rimangono feriti a causa dell’esplosione del prodotto.

Tuttavia, anche se ai fini della risarcibilità occorre che i prodotti siano destinati al solo uso privato, si tende sempre più a responsabilizzare il consumatore in tutte le ipotesi in cui quest’ultimo può effettivamente utilizzare quelle cautele necessarie ad evitare dei rischi che, in base alla natura evidente del difetto, le istruzioni e avvertenze ricevute dal produttore nonché per l’uso a cui il bene deve essere idoneo, possano essere più agevolmente eliminati dal consumatore medesimo. Ecco dunque che, secondo il legislatore italiano, la consapevolezza del difetto e del pericolo che ne può conseguire e la volontaria esposizione da parte dell’utilizzatore a tale pericolo, possono essere valutati in termini di inosservanza dell’ordinaria diligenza richiesta al consumatore.

Proprio con riferimento a questa disposizione, parte della dottrina ha osservato come, in tal modo operando, si sia voluto introdurre nel nostro ordinamento il principio di «assunzione del rischio». Al riguardo, è stato sostenuto che il valore esimente attribuito al comportamento del danneggiato non consegue da una valutazione in termini di diligenza o di colpa di quest’ultimo, atteso che agire assumendosi un rischio non consiste necessariamente nella violazione di una specifica norma di condotta, bensì dalla concreta posizione in cui si trova la vittima rispetto alla situazione pericolosa creata da altri soggetti.

Damiano Marinelli e Ettore William Di Mauro

Giuffrè Editore, 2016 – Atti del Convegno Stili di Vita ed Educazione Alimentare dall’infanzia all’età matura