Stalking e Mobbing a confronto
Lo “stalking” e il “mobbing” sono considerati fenomeni sociali le cui condotte perpetrano violenza psicologica nei confronti della vittima tramite atti, parole, minacce e\o intimidazioni, che si protraggono nel tempo.
Nonostante i punti di contatto tra le due fattispecie, vi sono però differenze sostanziali che andremo a delineare.
Lo stalking (etimologicamente deriva da “to stalk”: perseguitare) danneggia la vita intima e privata della vittima, a differenza del mobbing (da “mob”: assalire, molestare) che invece si consuma esclusivamente in ambito lavorativo ad opera del datore di lavoro o di un collega (da qui la differenza tra mobbing verticale e orizzontale).
Lo stalking, inoltre, è esplicitamente previsto dall’art. 612 bis c.p. mentre per il mobbing non esiste ancora una legge che lo identifichi come reato. La Corte di Cassazione ha però ritenuto che il reato più affine ad esso sia quello previsto dall’art 572 c.p. rubricato “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”.
Ma vediamo da vicino le caratteristiche delle due fattispecie.
Secondo l’art. 612 bis c.p., lo stalker è colui che “con condotte reiterate, minaccia e molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto…”. Trattasi, pertanto, di una condotta abituale, continuativa ed ininterrotta che può anche costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita. I diritti tutelati dalla norma sono la libertà morale, ovvero il diritto di autodeterminazione del soggetto leso, e l’incolumità individuale.
Trattasi di reato a dolo generico perché l’autore deve rappresentare e volere le condotta criminosa e l’evento che ne consegue. E’ inoltre un reato a forma libera e di evento, in quanto si può concretizzare in una serie indeterminata di forme (minacce e\o molestie) e richiede, ai fini della configurazione, il verificarsi di un evento dannoso e volto a pregiudicare i beni giuridici protetti dalla norma.
Un’autorevole sentenza della Corte di Cassazione, la n. 45648 del 2013, ha inoltre sottolineato che, in caso di reciprocità nei comportamenti molesti tra autore e vittima, se è ravvisabile una predominanza dello stalker tale per cui il comportamento tenuto dalla parte lesa è posto in essere al solo scopo di difendersi per sopraffare la paura, è comunque ravvisabile un’ ipotesi di stalking.
Il mobbing, invece, abbiamo detto che è una fenomeno fattuale non ancora normato, la cui condotta è volta a svilire la personalità e la dignità di un lavoratore.
La riconducibilità all’art. 572 c.p. è stata esplicitata da diverse sentenza tra cui possiamo ricordare la n. 43100/2010 della Corte di Cassazione penale secondo cui: “le condotte di carattere vessatorio e persecutorio realizzate ai danni del lavoratore dipendente (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia allorquando il soggetto agente versi in una posizione di supremazia che si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione, anche di natura meramente psicologica, riconducibile ad un rapporto di natura parafamiliare” .
Nonostante le differenze sostanziali tra stalking e mobbing, recente giurisprudenza ha ricondotto l’agire discriminatorio e vessatorio posto in essere dagli imputati ai danni di un loro dipendente alla condotta disciplinata dall’art. 612 bis c.p.
In tal caso, il Gup del Tribunale di Taranto, Dott. Rosati, ha ritenuto che, trattandosi di comportamenti vessatori tenuti all’interno di un’azienda con quasi 120 dipendenti, mancasse il rapporto parafamiliare tra datore e prestatore di lavoro, sussumendo pertanto la penale rilevanza delle condotte realizzate nella fattispecie dell’art. 612 bis c.p. e non in quella dell’art. 572 c.p.
La Suprema Corte, inoltre, con sentenza n. 18717/2018 ha inoltre ricondotto un’ipotesi di mobbing nell’ambito degli atti persecutori, evidenziando un vincolo causale tra i comportamenti tenuti dall’agente e l’imposta modifica delle abitudini di vita della vittima qualora, al forte disagio patito sul luogo di lavoro, consegua un grave stato d’ansia che porti la vittima ad assentarsi dall’attività e, conseguentemente, ad essere licenziata con grave pregiudizio per le sue sostanze economiche.
di Maria Grazia Matrone
Unione Nazionale Consumatori Umbria
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