Unione Nazionale Consumatori Umbria | La responsabilità genitoriale: i rapporti tra genitori e figli
La potestà dei genitori veniva individuata in quell’insieme di poteri decisionali strettamente funzionalizzati alla cura e all’educazione del minore, nonché alla gestione dei suoi interessi economici. ll decreto legislativo n. 154 del 28 dicembre 2013 ha attuato l’opera di rinnovamento già iniziata con la legge n. 219 del 2012 introducendo molteplici novità, tra le quali, particolarmente rilevante, è il definitivo abbandono del concetto di «potestà», sostituito con quello di «responsabilità genitoriale».
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La responsabilità genitoriale: i rapporti tra genitori e figli

La responsabilità genitoriale: i rapporti tra genitori e figli

Il decreto legislativo n. 154 del 28 dicembre 2013 ha attuato l’opera di rinnovamento già iniziata con la legge n. 219 del 2012 introducendo molteplici novità, tra le quali, particolarmente rilevante, è il definitivo abbandono del concetto di «potestà», sostituito con quello di «responsabilità genitoriale».

Tale modifica ha suscitato diverse perplessità a fronte della eliminazione dell’istituto della potestà, ritenuto cardine strutturale dei rapporti di filiazione in virtù di espressa previsione costituzionale, fino ad ipotizzare una possibile travalicazione dei limiti della delega al Governo.

Se da un lato, non può negarsi il sorgere di problematiche sostanziali e processuali, dall’altro sembra evidente come una simile locuzione sia il punto di arrivo di una scelta matura dal punto di vista culturale.

La potestà dei genitori veniva individuata in quell’insieme di poteri decisionali strettamente funzionalizzati alla cura e all’educazione del minore, nonché alla gestione dei suoi interessi economici; nonostante l’unicità del concetto, la dottrina meno recente aveva riscontrato una diversa modulazione della potestà nei confronti di figli legittimi e naturali, derivante dalla mancata equiparazione normativa del genitore legittimo rispetto a quello naturale.

Il cambio di prospettiva e, in sostanza, la piena coscienza della necessità di rivedere la normativa interna alla luce del preminente interesse del figlio, sono derivati dall’ordinamento internazionale e dai princìpi contenuti nella Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, nella Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996 e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000.

Su queste basi sono state formulate alcune pronunce della Corte costituzionale che hanno riconosciuto la necessità di valutare, in ogni caso, l’interesse del minore anche a fronte di previsioni interne che, modulandosi quali pene accessorie connesse alla commissione di un reato, incidevano sulla potestà genitoriale in modo automatico.

L’assunto è particolarmente rilevante perché, mentre la dottrina civilistica dibatteva nel tentativo di disegnare un «ruolo» il più possibile paritario fra genitori legittimi e naturali, la Costituzione conteneva già, fin dalla sua emanazione, il vero e unico principio informatore ravvisato nei diritti del figlio e, di conseguenza, nei corrispondenti doveri dei genitori.

Il riferimento specifico alla «responsabilità genitoriale» era già contenuto anche nel Reg. (CE) 2201/2003, nel quale, all’art. 2, n. 7, veniva definita come «i diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita»; il n. 8 del medesimo art. 2 del Regolamento 2201 stabiliva che «titolare della responsabilità genitoriale» era «qualsiasi persona che eserciti la responsabilità di genitore su un minore».

Da queste disposizioni si può notare come già in ambito europeo era matura da tempo la consapevolezza della necessità di non slegare il concetto di titolarità della responsabilità genitoriale dai relativi corollari dei diritti di affidamento e di visita; al contrario nell’ordinamento italiano si è assistito, fino alla riforma sull’affidamento condiviso del 2006, alla distinzione fra titolarità della potestà ed esercizio della potestà medesima, che veniva attribuito al solo genitore «affidatario», assegnando all’altro un mero potere di controllo.

In realtà, il legislatore appariva maturo per la «svolta» definitiva laddove, sempre nel 2006, inseriva nel codice di procedura civile, l’art. 709 ter, volto a regolare la soluzione delle controversie che insorgono tra genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale.

La norma contiene il riferimento letterale all’ inadempimento del genitore, prevedendo espressamente che, in caso di atti che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento o comunque arrechino pregiudizio al minore, il giudice possa disporre il risarcimento dei danni nei confronti del minore ovvero dell’altro genitore.

La formulazione sembrava, dunque, avvicinare la relazione che intercorre fra genitori e figli (nonché quella fra genitori) allo schema della responsabilità debitoria, e ciò non solo in virtù del richiamo all’inadempimento, ma per la forza insita nel prevedere legislativamente la possibilità di intervenire con lo strumento risarcitorio a fronte della violazione di doveri di stampo decisamente non patrimoniale.

Peraltro anche le aperture giurisprudenziali in tema di illeciti «endofamiliari» o «intrafamiliari» hanno statuito ipotesi risarcitorie legate a ritenute violazioni di carattere extracontrattuale, non riuscendo a superare l’idea della impossibilità di sovrapporre il modello delle relazioni familiari a quello del rapporto obbligatorio.

In realtà, il maggiore ostacolo al riconoscimento di una strutturazione del rapporto familiare nei termini di un modello sovrapponibile a quello obbligatorio, deriva dalla già rilevata impossibilità di configurare taluni comportamenti (es. la cura del minore, il dovere di assistenza morale e di fedeltà dei coniugi) come aventi carattere patrimoniale; tuttavia, anche tale limite appare superabile se si riflette sul fatto che la patrimonialità della prestazione può essere intesa in senso soggettivo e può essere integrata dalla previsione di una penale, attribuendo dunque alla volontà dei soggetti la possibilità di operare la «patrimonializzazione» e di costruire quindi un rapporto obbligatorio.

È evidente che la previsione non pattizia ma addirittura legislativa del risarcimento, contenuta nell’art. 709 ter c.p.c., è idonea a porre un problema interpretativo in ordine alla qualificazione dei rapporti fra genitori e figli, che appaiono sempre più vicini al modello dei rapporti obbligatori e alla configurazione di un vero e proprio obbligo reintegratorio conseguente alla loro violazione.

L’attuale scelta legislativa sembra, dunque, rappresentare un ulteriore passo in avanti nella direzione tracciata, direzione che, tuttavia, configurando un’innovazione idonea a scardinare perfino alcune tipiche costruzioni sistematiche, ha bisogno di ulteriori verifiche.

Occorre, quindi, ricostruire il concetto di responsabilità all’interno del nostro ordinamento, al fine di verificarne il rapporto e operarne la distinzione rispetto alla potestà.

I problemi, infatti, sono di natura ontologica in quanto il legislatore utilizza in vario modo il termine «responsabilità», generando delicate questioni interpretative.

L’esempio emblematico è l’art. 2740 c.c., dove la locuzione «responsabilità patrimoniale» si riferisce, in realtà, alla garanzia patrimoniale generica rappresentata da tutti i beni del debitore e volta al soddisfacimento dei creditori.

La dottrina ha tentato si superare queste imprecisioni del legislatore elaborando un contenuto tecnico del termine e sottolineando che l’unico senso in cui si possa parlare propriamente di «responsabilità» si ha quando una persona è obbligata ad un dato comportamento, legando strettamente il concetto alla presenza di una condotta doverosa.

Basandosi su tale posizione, sarebbe facile sostenere che le nozioni di «responsabilità» e «potestà» non possono essere accostate, poiché la prima sarebbe contraddistinta esclusivamente da un contenuto obbligatorio «negativo», difettando delle attribuzioni «positive» che sembrano inevitabilmente connesse alla seconda, quale il «potere» di adottare i provvedimenti comunque finalizzati a realizzare l’interesse del minore; ulteriore conseguenza sarebbe quella di dovere ritenere che, poiché non è revocabile in dubbio che i genitori continuino ad avere anche attribuzioni «positive», la responsabilità genitoriale si discosti notevolmente da quella debitoria e finisca per coincidere esattamente con il vecchio concetto, in pratica, il legislatore avrebbe operato una modificazione meramente terminologica mantenendo pressoché intatti i confini e il contenuto della figura.

Il riferimento alla strumentalità del comportamento creditorio appare di fondamentale importanza, perché disegna esattamente il ruolo e la funzione delle attribuzioni riconosciute al debitore: quest’ultimo certamente è obbligato ad adempiere, ma sembra essergli riconosciuta una posizione positiva, consistente nel potere costituire in mora il creditore, posizione peraltro a sua volta connessa alla stessa realizzazione della pretesa creditoria.

Convenendo con quanto descritto, il rapporto obbligatorio non appare molto differente dal rapporto di filiazione, almeno secondo la concezione attuale del medesimo: il genitore ha il dovere di perseguire l’interesse del minore, e le attribuzioni positive riconosciute al medesimo genitore sono certamente strumentali e finalizzate a tale realizzazione.

Di conseguenza, non appaiono lontani neppure i profili di responsabilità debitoria e responsabilità genitoriale, dato che quest’ultima si configura nel caso di mancato adempimento di un comportamento doveroso che può condurre, in virtù di espressa previsione legislativa, al risarcimento del danno.

Una tale costruzione diventa possibile se si conviene che la potestà abbia abbandonato, nel corso del tempo, la vecchia configurazione, per essere sempre più individuata come strumento di realizzazione degli interessi della prole.

Diventa possibile sostenere che la modifica del legislatore mira a riaffermare proprio la mutata valutazione del rapporto di filiazione, eliminando un termine che avrebbe continuato a spostare l’asse di osservazione dai diritti dei figli alle attribuzioni dei genitori.

Nonostante la riforma del 2013, la sostituzione terminologica di «podestà genitoriale» con quella di «responsabilità genitoriale» non ha inciso sotto il profilo sostanziale.

Il Reg. CE n. 2201/2003 definisce la «responsabilità genitoriale» come l’insieme dei «diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore, riguardante la persona od i beni di un minore».

Gli oneri genitoriali fondamentali previsti dall’art. 30 Cost., vengono meno solamente con la mrote del figlio o del genitore, con il mutamento di status familiare, con il raggiungimento della sua piena indipendenza economica o sociale.

Tutto i restanti oneri genitoriali che fanno capo alla disciplina sulla responsabilità genitoriale in senso stretto, così come prevista dal nostro codice civile possono invece venire meno anche a seguito di un provvedimento ablativo della responsabilità genitoriale disposto dall’Autorità giudiziaria.

Il fatto che il genitore decaduto della responsabilità genitoriale non sia privato dei doveri fondamentali attribuitigli in virtù della sua qualità di genitore risulta altresì confermato da varie disposizioni normative in virtù delle quali egli ha comunque diritto a vigilare sull’istruzione e sull’educazione del figlio e più in generale sul suo benessere psicofisico (artt. 316, comma 5, 337 quater, comma 3, c.c.).

In realtà non si conferisce ai genitori un diritto soggettivo, ma un complesso di doveri che assumono le caratteristiche dell’ufficium, i quali comportano l’esercizio di un dovere proprio attuato nell’interesse altrui.

La dottrina, infatti, suole distinguere la podestà o responsabilità genitoriale sotto il profilo interno e esterno.

Sotto il primo profilo essa si manifesta in uno status personale rivendicabile dal genitore erga omnes ovvero nei rapporti esterni alla famiglia. A questo profilo vengono ricollegati i poteri di rappresentanza del minore e la responsabilità civile dei genitori verso i terzi, ai sensi dell’art. 2048 c.c. Per quanto concerne il rapporto interno tra genitore e figlio, essa riguarda il complesso delle relazioni giuridiche tra il genitore e il figlio.

Sotto quest’ultimo profilo, l’ordinamento predilige l’interesse del minore, in quanto «soggetto debole» del rapporto.

I diritti dei genitori sui figli minori sono infatti funzionali al perseguimento del suo benessere psicofisico e alla tutela dei suoi diritti, quale soggetto giuridicamente incapace.

Dalle considerazioni che precedono si ricava che la nozione di responsabilità genitoriale appare sicuramente più confacente rispetto allo stesso dettato costituzionale, che, nel rinvenire l’essenza della qualità di genitore nell’obbligo di mantenimento, di istruzione e di educazione della prole, richiama i genitori all’obbligo di responsabilità.

Tuttavia, non può non evidenziarsi come manchi, nella riforma, la menzione della funzione di cura del figlio, alla quale essa dovrebbe, invece, ispirarsi.

In proposito il legislatore delegato avrebbe potuto trarre utili suggerimenti dal legislatore europeo, che come accennato, già da tempo fa riferimento alla responsabilità genitoriale, evidenziando il profilo del munus, ossia dell’obbligo che i genitori assumono di curare la crescita, l’istruzione e l’educazione dei figli, rispetto a quello della potestas.

Senza considerare le numerose convenzioni internazionali in materia di tutela dei diritti dei minori d’età, le quali spesso sottendono «una nozione di responsabilità genitoriale quale cura del figlio a 360 gradi».

Il legislatore interno, inoltre, avrebbe trovato utili spunti anche dalle legislazioni dei Paesi europei come la Germania e la Francia. Il primo, con legge del 18 luglio 1979, nel riformare l’istituto della potestà dei genitori, ha sostituito nel § 1626 del BGB il tradizionale termine «gewalt» (potere) con quello di «sorge» (cura), precisando: «nell’allevamento e nell’educazione del figlio i genitori prendono in considerazione la crescente capacità ed il crescente bisogno del figlio di agire indipendentemente ed in modo responsabile. Essi discutono col figlio, per quanto ciò sia opportuno in base al suo stato di sviluppo, dei problemi relativi alla sua cura e mirano al comune accordo». Nondimeno, i genitori conservano un proprio interesse e un proprio diritto all’ufficio di cura del figlio, riconosciutogli dall’art. 6, secondo comma della Grundgesetz, a condizione che lo stesso venga esercitato nell’esclusivo interesse del figlio e per la formazione della sua personalità.

Parimenti in Francia, laddove la legge di riforma del code civil  ha sostituito la locuzione «puissance» con quella di «autorité» (art. 371. 2 code civil), derivante dal latino augêre (che fa crescere), che indica, per l’appunto, il complesso dei caratteri riconosciuti ad una istituzione o ad una persona cui ci si assoggetta consensualmente per la realizzazione di determinati scopi.

Nella vigente versione del suddetto articolo (come da ultimo modificato dalla Loi n. 2002-305 del 4 marzo 2002) si legge infatti: «l’autorità genitoriale è un insieme di diritti e di doveri aventi per finalità l’interesse del fanciullo. Essa appartiene ai genitori fino alla maggiore età o all’emancipazione del fanciullo per proteggere la sua sicurezza, salute e moralità, per assicurare la sua educazione e permettere il suo sviluppo nel rispetto dovuto alla sua persona. I genitori coinvolgono il fanciullo nelle decisioni che lo riguardano secondo l’età ed il suo grado di maturità».

Il modello di responsabilità genitoriale, come introdotto dall’intervento riformatore in esame, se, da un lato, appare un grande passo avanti nella direzione della tutela dell’interesse dei figli considerati nella loro complessità psico – fisica, in quanto sottende un processo di rivisitazione di concetti quali la soggettività del minore d’età, la capacità di discernimento e l’interesse del minore , nondimeno non può sottacersi che i novelli articoli, per come sono stati modellati, tradiscono, per alcuni versi, un’intrinseca debolezza speculativa quando li si proietti sul piano della tutela effettiva dei diritti della prole, specie se minore d’età.

Si pensi alla stessa previsione contenuta nell’art. 315 bis c.c., in forza della quale «il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano», che, seppur apprezzabile negli intenti, rischia di non sortire l’effetto desiderato se l’ascolto non è «preceduto da un’informazione fornita con linguaggio e modalità adeguate in merito alle determinazioni che potrebbero essere assunte, affinché il minore di età possa consapevolmente esprimere la propria opinione».

Ebbene, se è vero, allora, che con l’interpretazione si colmano le lacune, diviene di primaria importanza la consapevolezza da parte dell’interprete della necessità di ricercare soluzioni flessibili, adeguate alle singole situazioni concrete, nella consapevolezza che l’«oggetto della interpretazione giuridica non è riconducibile al linguaggio delle disposizioni di legge, ma deve partire dai fatti, dalla loro problematicità, con una necessaria inversione metodologica secondo il broccardo ex facto oritur ius» . D’altro canto, «la conoscenza giuridica non è prospettabile mai separata dal fine pratico dell’applicazione e non si considera completa se distinta dall’impatto con il caso concreto, con il fatto storico da regolamentare».

Più dettagliatamente, bisognerà partire, quindi, dal caso concreto, cioè dal minore che si ha davanti, dal suo contesto familiare, dal livello culturale che lo caratterizza, dalla sua indole e, guardando all’interesse in concreto dello stesso, decidere cosa a lui convenga veramente, evitando il prodursi di pregiudizi irreparabili.

Da qui l’esigenza di riferirsi, piuttosto che «alla» responsabilità genitoriale, quale istituto unitario, «alle» responsabilità genitoriali al plurale, sottolineandone le differenze e le particolarità; e ciò specie in considerazione del fatto che le molteplici configurazioni del rapporto genitori – figli danno luogo a distinte forme di responsabilità genitoriali, che assumono connotazioni differenti a seconda del contesto di riferimento e, quindi, delle circostanze del caso concreto.

Alla luce di simili considerazioni, sembra possibile affermare che la conseguita consapevolezza del legislatore riguardo alla varietà di situazioni che possono caratterizzare il legame tra i genitori, incidendo sulla sua solidità e sulla sua stabilità, ha condotto a valorizzare legami familiari che in precedenza non assumevano rilievo giuridico. Sotto questo profilo è stata posta in evidenza la trasformazione epocale che ha portato, per la prima volta, alla creazione del legame di parentela indipendentemente dall’unione matrimoniale dei genitori.

Anche per quanto concerne la responsabilità genitoriale si riscontra una trasformazione forse meno enfatizzata, ma sicuramente altrettanto «epocale».

Nel sistema ideato dal legislatore del ‘75, infatti, l’esercizio congiunto della potestà genitoriale presupponeva necessariamente la convivenza dei genitori: in caso di separazione o divorzio l’esercizio della potestà si concentrava sul genitore affidatario (art. 155, comma, 3, c.c.); nella famiglia non fondata sul matrimonio l’esercizio congiunto della potestà era limitato al solo caso in cui entrambi i genitori avessero riconosciuto il figlio e convivessero con lui (art. 317 bis c.c.). La possibilità di un esercizio congiunto della potestà genitoriale anche da parte di una coppia non più unita è stata contemplata solamente a seguito dell’introduzione della l.n. 54/2006. L’ambito applicativo di tale regola, poi, è stato ulteriormente esteso anche all’ipotesi in cui la coppia non avesse mai convissuto e formato un consorzio familiare coeso da una pronuncia di legittimità che, come osservato, ha anticipato la soluzione oggi recepita dal legislatore. Nel contesto normativo attuale, pertanto, si realizza completamente il disegno introdotto con la l.n. 54/2006 e si afferma la regola secondo la quale l’esercizio condiviso della responsabilità genitoriale non presuppone la convivenza della coppia dei genitori e del figlio.

La creazione di rapporti di parentela a prescindere dal matrimonio dei genitori e l’affermazione dell’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale a prescindere dalla convivenza di questi ultimi costituiscono profili autonomi che, nondimeno, appaiono collegati e in un certo senso si saldano intorno ad un’esigenza comune: quella di compensare la fragilità e l’instabilità che caratterizzano le unioni dei genitori attribuendo rilievo a nuove forme di responsabilità e coinvolgimento in capo ai genitori e nuovi legami di parentela all’interno del nucleo familiare inteso in senso «esteso».

Proprio questa particolare prospettiva consente di valorizzare ulteriormente il profilo di novità che caratterizza il passaggio dalla potestà alla responsabilità genitoriale. A ben vedere esso può essere osservato come un corollario di un nuovo assetto dei rapporti familiari che il legislatore ha delineato prendendo atto della pluralità dei modelli familiari che caratterizzano l’unione dei genitori e perseguendo l’obiettivo di garantire al figlio la maggiore coesione possibile della rete familiare che lo circonda.

In definitiva, le due trasformazioni menzionate, nel loro insieme, determinano una condizione unica del figlio che, a differenza del passato, si trova ad essere inserito nelle relazioni di parentela di entrambi genitori e vede gli stessi genitori congiuntamente coinvolti in una responsabilità nei suoi confronti che si basa esclusivamente sulla generazione e prescinde totalmente dalla tipologia di unione che li lega, dalla sua stabilità e dalla creazione di unioni nuove.

Infatti, per la prima volta, il legislatore ammette la possibilità di un esercizio condiviso di quella «situazione giuridica complessa idonea a riassumere i doveri, gli obblighi e i diritti derivanti per il genitore dalla filiazione che viene a sostituire il tradizionale concetto di potestà» a prescindere dall’esistenza di un nucleo familiare cementato dal matrimonio o quantomeno dalla convivenza dei genitori; genitori che, come si è visto, in alcuni casi, potrebbero persino trovarsi ad esercitare la responsabilità genitoriale parallelamente nel contesto di due nuclei familiari diversi nei quali siano inseriti i figli generati con partners diversi.

In definitiva la necessità di prendere atto dell’esistenza e della diffusione di modelli diversi da quello della famiglia unita ha portato, inevitabilmente, a delineare una modalità di partecipazione e di coinvolgimento dei genitori nella vita del figlio (la responsabilità genitoriale) che deve necessariamente presentare caratteri diversi da quelli della potestà genitoriale e, segnatamente, quei caratteri di plasmabilità che appaiono necessari quando si tratta di comporre le complesse trame di rapporti generate dalla sovrapposizione di nuclei familiari ulteriori rispetto a quello composto dai genitori dal figlio.

Ai sensi dell’art. 2048 c.c., i genitori sono responsabili verso i terzi per i danni causati dai figli minori non emancipati che convivano con essi.

Così come per il danno cagionato da persona incapace di intendere e di volere (art. 2047 c.c.), l’attribuzione della responsabilità avviene sulla presunzione di una culpa in vigilando alla quale, ai fini della norma in esame, viene tuttavia associata anche una culpa in educando, tanto più nei confronti dei genitori.

L’art. 2048 c.c. integra una forma di responsabilità aggravata di carattere oggettivo che si presume fino a prova contraria.

Rientrando tra le ipotesi eccezionali di responsabilità oggettiva previste dal nostro ordinamento la norma citata non può essere applicata analogicamente ancorché la sua generica formulazione ne consenta ugualmente un’interpretazione piuttosto elastica.

Occorre valutare se la responsabilità dei genitori ex art. 2048 c.c. escluda o si aggiunga a quella del figlio minore. L’orientamento che esclude totalemte la responsabilità civile del minore sarebbe fondato anche dall’esclusione dell’azione civile nel processo penale minorile (art. 10, D.p.r. 448/1988).

Ciò nonostante, secondo l’orientamento prevalente, l’art. 2048 c.c. non è sufficiente ad escludere completamente la responsabilità civile del minore capace di intendere e di volere.

Pertanto, la responsabilità civile del genitore integra più propriamente una responsabilità concorrente con quella del figlio minore capace di intendere e di volere.

Nel nostro ordinamento, la responsabilità civile è strettamente correlata alla disciplina sull’imputabilità (art. 85 c.p. ss.), ancorché secondo criteri meno rigidi e rigorosi, con la conseguenza che la stessa può ritenersi esclusa solamente nei confronti dei soggetti totalmente incapaci di discernimento.

Di conseguenza i genitori risponderà esclusivamente solamente in ordine a fatti commessi dai minori totalmente incapaci di intendere e di volere. Infatti, per effetto degli artt. 97 e 98 c.c., deve ritenersi che il minore ultra quattordicenne capace di intendere e di volere possa essere ritenuto civilmente responsabile in solido coi genitori.

Ciò comporta che il danneggiato possa rivalersi anche sui bei propri del figlio, benché nei suoi confronti non si verifichi alcuna inversione dell’onere probatorio e sia anzi necessario provare anche la capacità del minore.

In virtù del principio secondo il quale la responsabilità civile dei genitori concorre con quella dei figli minori capaci di intendere e di volere, deve ritenersi che i genitori abbiano diritto di rivalsa verso i figli per i danni da questi arrecati.

Secondo alcuni occorre valutare, inoltre, l’effettiva capacità di discernimento del minore a prescindere dalla sua età, essendo la responsabilità civile fondata su presupposti giuridici parzialmente diversi da quella penale.

Tuttavia, la responsabilità civile ex art. 2048 c.c. richiede un ulteriore requisito il quale non ha avuto un facile inquadramento da parte della giurisprudenza: la coabitazione del minore.

Secondo un primo orientamento tale orientamento tale requisito deve essere interpretato in modo rigoroso, avendo la norma carattere eccezionale. In questo senso, la responsabilità può essere esclusa solamente nei confronti del genitore non affidatario o quando il minore abbia stabilmente abbandonato la casa familiare sottraendosi agli obblighi previsti dall’art. 318 c.c. senza colpa da parte del genitore.

Un altro orientamento, più recente, interpreta tale requisito in modo più elastico essendo la responsabilità civile del genitore comunque fondata sulla culpa in educando che prescinde dalla sussistenza di un vero e proprio rapporto di coabitazione.

Sotto questo aspetto, la responsabilità ex art. 2048 c.c. può essere rilevata anche qualora si sia verificata una interruzione saltuaria ed occasionale della coabitazione.

La responsabilità del genitore è esclusa quando il minore si sia allontanato volontariamente, in modo stabile, dalla casa familiare, senza colpa da parte dei genitori. Quando il minore sia affidato a terzi, la responsabilità civile verso terzi non viene aprioristicamente esclusa, dovendo il genitore provare di avere fornito al figlio una istruzione ed un’educazione adeguati e di averlo comunque affidato a persone capaci e responsabili.

La mancanza di coabitazione dei genitori, con conseguente affidamento esclusivo del figlio minore ad uno di essi ha comportato, in passato, l’attribuzione della responsabilità civile ex art. 2048 esclusivamente in capo al genitore affidatario.

Tale norma infatti imputa la responsabilità civile oggettiva a tutti coloro che sono tenuti alla sorveglianza sull’incapace, secondo una formulazione alquanto generica e a prescindere dal titolo di affidamento che può indistintamente essere legale, giudiziale, volontario o di mero fatto.

Negli altri casi, occorre evidenziare che la responsabilità civile ex art. 2048 c.c. prevede un ambito soggettivo molto più circoscritto e particolareggiato.

Benché la norma abbia carattere eccezionale e pertanto non suscettibile di interpretazione analogica, deve comunque ritenersi che la responsabilità civile oggettiva di cui all’art. 2048 c.c. debba applicarsi anche in caso di adozione non legittimante ovvero a tutti coloro che assumano gli oneri connessi alla responsabilità genitoriale, ancorché in forma vicaria, in modo stabile3.

Viceversa non sembra doversi estendere la responsabilità in esame a coloro ai quali i minori siano affidati in modo occasionale o temporaneo, sempreché non si rientri nelle ipotesi previste dall’art. 2048, comma 2, c.c. relativo alla responsabilità dei precettori.

Un ulteriore requisito per la configurazione della responsabilità dei genitori per i danni cagionati dai figli è l’onere della prova in capo al danneggiato, infatti l’art. 2048 c.c. precisa che il terzo è tenuto a provare di avere subito un danno ingiusto da parte del minore.

Solo con tale prova il terzo può richiedere il risarcimento del danno nei confronti dei genitori. Non è, invece, necessario per il terzo provare che il danno subito dal minore sia dipendente da una scarsa educazione impartita dai genitori o di una violazione del dovere di vigilanza.

Seguendo una tale impostazione, la legge ammette comunque la prova contraria, imponendo al genitore la dimostrazione di avere regolarmente adempiuto i suoi obblighi genitoriale e di non avere potuto impedire il fatto.

Secondo l’orientamento prevalente l’esclusione dalla responsabilità dei genitori per fatti illeciti commessi dai figli minori ricorre quando la condotta tenuta da quest’ultimo assuma carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, tale da non potere essere impedita con una vigilanza normale e diligente e da un’educazione adeguata all’ambiente, all’età, alle abitudini e al carattere del minore.

Gli obblighi di educazione e vigilanza verso i figli minori devono in ogni caso essere rapportati all’età del minore e alla sua acquisita capacità di agire.

Nel caso viene ammessa la prova liberatoria da parte dei genitori, il risarcimento del danno può essere escluso nei confronti dei genitori ma non necessariamente nei confronti dei figli minori

capaci di intendere e di volere, verso i quali il terzo potrà agire direttamente per ottenere il risarcimento del danno.

Quando il genitore abbia affidato temporaneamente il figlio minore a terze persone, anche verso queste ultime ricorre la responsabilità civile verso terzi, qualora il rapporto dal quale è scaturito l’affidamento comporti, anche implicitamente,l’assunzione del dovere di vigilanza sul minore ovvero quello di educazione.

Gli obblighi genitoriali, tuttavia, non vengono meno in capo al genitore, il quale rimane generalmente responsabile verso i terzi, a meno che l’affidamento a terzi dei poteri connessi alla responsabilità genitoriale, in rapporto alle concrete circostanze del fatto, non sia tale da attribuire la responsabilità del fatto illecito commesso dal minore, esclusivamente in capo al terzo affidatario.

A differenza dei genitori e dei tutori, la responsabilità del terzo affidatario ricorre esclusivamente per i fatti illeciti commessi nel tempo in cui perduta l’affidamento ed è in ogni caso concorrente con quella del genitore.

Damiano Marinelli e Ettore William di Mauro

Giuffrè Editore, 2017 – Cyberbullismo, Profili pscio-pedagogici e socio-giuridici