Addio ai resi gratuiti nell’ecommerce. E’ una bufala!
Confusione sull’addio ai resi nell’ecommerce
In questi giorni è divampata una notizia che ha destato molta preoccupazione nei consumatori abituati a comprare online: l’addio ai resi gratuiti nell’ecommerce… Dico subito che i mezzi di informazione hanno fatto un po’ di confusione, raccontando un trend d’oltreoceano. Questo trend però -lo dico subito-non ha nulla a che fare con una modifica del regime normativo qui da noi!
Stando al New York Post, citato a sua volta da Repubblica, l’81% dei rivenditori negli Usa avrebbe deciso di addebitare una commissione per la restituzione degli articoli. Mentre secondo la società di logistica Happy Returns, più di quattro commercianti su cinque hanno detto stop al reso gratuito.
Secondo i dati della National Retail Federation, solo in America, i clienti hanno rispedito circa il 17% della merce totale acquistata nel 2022, per un totale di 816 miliardi di dollari. Per la società di servizi di vendita Inmar Intelligence, i rivenditori spendono 27 dollari per gestire il reso di un articolo da 100 dollari acquistato online. Mentre il Wall Street Journal spiega come le aziende perdono circa il 50% del loro margine sui resi.
E ciò vale ovviamente anche nella vecchia Europa. Nel Regno Unito dove, da circa un anno, Zara addebita 1,95 sterline ai clienti che desiderano restituire un capo acquistato online attraverso i punti vendita di consegna gestiti da terze parti come, ad esempio, gli uffici postali. Sempre in Inghilterra (ma vale la pena di ricordare che siamo al di fuori dell’Unione Europea) un altro gigante come H&M avrebbe seguito a ruota l’esempio dell’insegna spagnola. Ha infatti introdotto una commissione di due sterline per tutti coloro (non membri della piattaforma) che vogliano rispedire indietro gli ordini effettuati. Il tutto, ci dicono, per fermare i resi “compulsivi”.
Di cosa si tratta?
Di che si tratta? Siamo onesti, sarà capitato anche a voi di acquistare su internet un po’ alla leggera, “tanto poi nel caso, posso sempre esercitare il recesso”. Dovremmo pensarci bene, come consumatori, prima di acquistare compulsivamente, questo è certo. Ma per ora il reso resta un diritto fondamentale dei consumatori che acquistano online!
E ciò nonostante su questo campo sia sceso perfino sua maestà stessa Amazon. Il gigante che negli Stati Uniti, dopo anni di partnership con negozi come Kohl’s e Staples, al fine di facilitare i clienti a restituire i prodotti in un unico luogo fisico – dall’aprile 2023 ha imposto una tariffa di un dollaro per i clienti che consegnano i loro pacchi Amazon presso un ufficio postale.
E anche Zara, Macy’s, Abercrombie & Fitch, J. Crew e H&M hanno imposto commissioni fino a 7 dollari per la restituzione degli articoli tramite resi postali.
E in Italia che succede?
Questo nuovo approccio arriverà anche in Italia? Come ho detto, in quanto Paese membro dell’Unione Europea, da noi restano inderogabili le norme a tutela dei consumatori, anche se qualcosa serpeggia. Con l’Unione Nazionale Consumatori stiamo monitorando le condizioni contrattualòi di Zara, Yoox, H&M e co. Perché sarebbe illegittimo addebitare commissioni a chi intende esercitare il reso che per legge. Ricordo deve essere gratuito (ad eccezione dei costi di restituzione che restano a carico del consumatore. E proprio su questo aspetto potrebbe annidarsi quale furberia… Staremo a vedere!
Quel che è certo è che i giganti dfell’ecommerce, dopo aver conquistato la nostra fiducia, proprio grazie alla facilità nei resi, stiano cercando di far quadrare i conti. Ma d’altro canto devo ammettere che certi atteggiamenti dei consumatori non sono più tollerabili.
Ad esempio: voi lo sapevate che nell’indecisione su taglia e colore, sono in molti ad acquistare più capi con l’intenzione di restituire ciò che non soddisfa le proprie preferenze, conservando il modello che invece meglio si adatta ai propri gusti. Questa pratica, spesso motivata dalla smania compulsiva negli acquisti ha un nome ben preciso: si chiama bracketing ed ha un incredibile impatto ambientale. Questo perché ogni volta che un consumatore restituisce un capo acquistato online, quel capo va nuovamente trasportato, controllato, riparato e riconfezionato prima di poter essere effettivamente rimesso in vendita.
Senza dire che molti prodotti non vengono nemmeno riutilizzati. Finiscono infatti direttamente in discarica e vanno ad aumentare la quantità di rifiuti solidi e plastiche che invadono il pianeta. Se si pensa poi che, per sostenere i costi dei resi, molti venditori online sono costretti a ridurre i prezzi dei loro prodotti, a discapito ovviamente di qualità nonché di sicurezza entro la quale far operare i propri lavoratori, il problema assume proporzioni evidenti! Ma insomma a me non sembra che siano i giganti del tessile (quasi tutti notoriamente inquinanti) a dover educare le persone ad uno shopping meno disordinato aumentando i costi per il recesso! Almeno qui in Europa dove le regole sono chiare da tempo.
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