Unione Nazionale Consumatori Umbria | L’amministrazione di sostegno in funzione riabilitativa del giocatore patologico: una nuova prospettiva
L'amministrazione di sostegno e la sua applicazione per tutte le c.d. «nuove patologie», quali anche la dipendenza da gioco d’azzardo, attraverso un provvedimento personalizzato, modulabile in base alle necessità del caso concreto.
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L’amministrazione di sostegno in funzione riabilitativa del giocatore patologico: una nuova prospettiva

L’amministrazione di sostegno in funzione riabilitativa del giocatore patologico: una nuova prospettiva

La persona che, a causa di una infermità mentale o anche di una menomazione fisica o psichica si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno.

L’impostazione prendeva le mosse dalla valutazione della incapacità del soggetto assicurando allo stesso la protezione giuridica attraverso gli istituti della interdizione e della inabilitazione. Nella prima, veniva sottoposta al vaglio del giudice la verifica della totale inadeguatezza del soggetto ad orientarsi nel tempo e nello spazio e la conseguente incapacità a condursi validamente nella gestione e disposizione del suo patrimonio. La seconda ipotesi funzionava come un istituto autonomo, per i casi meno gravi, o come ipotesi graduata sulla richiesta di interdizione nei casi in cui si accertava il permanere di un residuo di capacità che non consentiva l’adozione dell’ipotesi più grave.

Stabilendo dunque il grado di incapacità dell’infermo si arrivava a sancire la perdita totale o parziale della capacità di agire orientando di conseguenza il grado di intervento del tutore e del curatore, che comunque rimaneva generalizzato, una volta istituita la tutela o la curatela.

L’ordinamento con i sopra citati istituti è da sempre intervenuto con l’intento di tutelare il soggetto debole, valutando lo stato dello stesso al fine di dichiararne la sua incapacità.

Con l’istituto dell’amministrazione di sostegno, invece, si cambia prospettiva, guardando alla capacità per definirne i suoi limiti, dando rilievo primario alla persona da tutelare e alla «permanenza della capacità» fino al limite minimo dell’incapacità che potrebbe ancora portare ad una pronuncia di interdizione.

Con la legge 9 gennaio 2004, n. 6 si è inciso sul tessuto normativo del codice civile, variando significativamente l’impianto delle misure dettate a protezione degli incapaci, ridisegnando il Titolo XII del Libro I.

L’accento va posto sulla correlazione, chiaramente messa in luce dal legislatore, tra tutela e limitazione della capacità d’agire: la finalità perseguita attraverso la riforma è quella di tutelare, «con la minore limitazione possibile della capacità di agire». Il che consente di evincere, come l’accesso alla nuova misura protettiva comporti, quale conseguenza essenziale al suo modo di essere, una diminuzione nella capacità di chi vi è sottoposto. Un simile esito, che trova conferma nell’art. 409 c.c., non significa che, in concreto «non possano aversi situazioni nelle quali il provvedimento del giudice tutelare finisca praticamente per non incidere sulla capacità del beneficiario». Ma se ciò è vero, per fugare i dubbi suscitati in ordine alla sfera applicativa dell’istituto, dalla testuale formulazione dell’art. 404 c.c., laddove, nel quadro dei presupposti richiesti per la nomina dell’amministratore, compare il riferimento alla mera infermità o menomazione fisica della persona. Perché delle due l’una:«o si ipotizza che al soggetto impossibilitato, per un deficit fisico, alla cura diretta dei propri affari, ma perfettamente compos sui, sia consentito rinunciare, in base ad una valutazione di convenienza, alla pienezza della propria capacità d’agire, facendo istanza per l’accesso all’amministrazione di sostegno; o si prende atto che l’unica via per ammettere che la sfera di applicazione dell’istituto possa estendersi anche alle pure disabilità fisiche sarebbe quella di riconoscere che, in questi casi, l’amministrazione di sostegno sia priva di qualsiasi potenzialità incapacitante». Tuttavia, la legge conosce solo il paradigma dell’amministrazione idonea ad incapacitare, inducendo ad escludere, nonostante il dettato dell’art. 404 c.c., che fruitore della nuova misura di protezione possa essere chi risulti affetto da patologie o menomazioni non influenti in alcun modo sulla sua razionalità.

Sotto altro profilo, l’indicazione fornita dall’art. 1 l. n. 6 del 2004, ai sensi del quale la tutela della persona inidonea alla cura dei propri interessi deve realizzarsi con il minor sacrificio possibile per la sua capacità d’agire, si risolve in una direttiva impartita al giudice tutelare, il quale, nel delineare l’oggetto dell’amministrazione e l’ambito degli atti rispetto a cui il beneficiario deve essere sostituito o assistito dall’amministratore, sarà tenuto a compiere una rigorosa valutazione relativa alle restrizioni che in concreto appaiono indispensabili ad assicurare la protezione del soggetto cui il procedimento si riferisce.

La legge del 2004 ha precisato che le persone assoggettabili a tale misura protettiva sono quelle che risultino, in tutto o in parte, prive di autonomia «nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana». Una simile formula riecheggia nell’art. 409, comma 2, c.c. laddove il legislatore, nello stabilire gli effetti derivanti dall’apertura dell’amministrazione, dispone che il beneficiario possa in ogni caso compiere «gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana». Le due formule sembrano in antitesi, ma, in realtà, mirano a definire non i presupposti soggettivi di accesso all’istituto, ma a sottolineare la sua vocazione, quale strumento cui è rimesso di sopperire alla incapacità del beneficiario rispetto a tutti quegli atti che possono dirsi «comuni» in relazione a ciò che normalmente avviene nella vita di un individuo. Questo permette di segnare i confini dell’amministrazione di sostegno rispetto alle figure dell’interdizione giudiziale e dell’inabilitazione: alle quali resta ancora affidata la tutela della persona inadatta alla cura dei propri interessi, quando si presenti l’esigenza di provvedere ad una gestione patrimoniale complessa e dunque al compimento di atti che non possono definirsi comuni.

L’art. 1 della legge n. 6 del 2004, non confluito nel codice civile, stabilisce le finalità della predetta legge:«tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente». Tale disposizione, insieme all’art. 404 c.c., delinea «inscindibilmente, i presupposti d’operatività del nuovo istituto, e l’esito cui esso tende: la persona priva, in tutto o in parte, d’autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, è meritevole di essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui ha la residenza o il domicilio»: è tale la persona che, per un’infermità ovvero menomazione fisica o psichica, si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi.

L’ampiezza della formula legislativa ha determinato l’insorgere di una serie di contrasti interpretativi, in giurisprudenza e in dottrina, circa l’ambito di operatività della nuova figura.

In particolare, da un lato, è pacifico sulla possibilità che l’amministrazione di sostegno ricopra non soltanto situazioni di impossibilità ma anche di difficoltà nella gestione degli stessi; dall’altro, le divergenze di vedute si fanno ancora più intense laddove l’interprete sia chiamato a tracciare una linea di confine fra il nuovo istituto e l’apparato di risposte tradizionali.

Emerge con chiarezza che il punto nodale dell’intera disciplina riformata è rappresentato dalla problematica coesistenza dell’amministrazione di sostegno con l’interdizione e inabilitazione.

La novella al codice, infatti, nell’introdurre il nuovo istituto, non ha abrogato i vecchi meccanismi di protezione, prevedendo anzi un regime di circolarità tra gli stessi.

La ricchezza dei casi concreti tutelabili attraverso la figura dell’amministrazione di sostegno è evidente: dagli stati patologici interessanti la sfera psichica, a processi morbosi a carattere intermittente, come l’epilessia; dall’insufficienza mentale alla cerebro lesione; dall’autismo alla sindrome di Down, dalle schizofrenie alle oligofrenie, dalle sindromi depressive alle tossicodipendenze, alla demenza senile.

Un ruolo fondamentale nel successo dell’istituto è giocato dalla figura dell’amministratore di sostegno. Questi «è una presenza da concepire, sulla carta, come qualcosa di non molto distante da una sorta di fratello maggiore un individuo equilibrato, disponibile “come testa e come gambe”. Possibilmente una creatura generosa, non troppo impaziente, con doti spiccate di buon cuore, una presenza attenta alle esigenze, al limite ai capricci, comunque alle necessità materiali e spirituali della persona amministrata».

Ai sensi dell’art. 404 c.c., condizione necessaria ai fini dell’apertura dell’amministrazione di sostegno è la sussistenza di un’infermità o di una menomazione, fisica o psichica, per effetto della quale il soggetto si trovi a versare nell’impossibilità, sia pure solo parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi. Così l’indebolimento, anche progressivo, delle facoltà intellettive dovuto all’avanzare dell’età e più in generale i disagi psichici che non si traducono, propriamente, in uno stato patologico appaiono idonei a giustificare, quando determinino «un’inettitudine anche soltanto parziale alla cura dei propri interessi, la sottoposizione alla misura dell’amministrazione di sostegno».

Sembra, quindi, che l’amministrazione di sostegno possa essere disposta, quanto alle situazioni di disagio psichico, nei seguenti casi: indebolimento delle facoltà intellettive che non si traduca in una vera e propria malattia; infermità mentale di tipo temporaneo; infermità mentale abituale, salvo che il patrimonio dell’incapace, per la sua consistenza e complessità, faccia apparire come necessaria l’interdizione ovvero l’inabilitazione, a seconda delle condizioni in cui l’incapace medesimo si trova.

La prodigalità e l’abuso abituale di bevande alcoliche o di sostanze stupefacenti o di giochi d’azzardo non saranno in sé bastevoli, anche quando ne derivi il rischio di gravi pregiudizi economici per la persona o la sua famiglia, a consentire l’apertura dell’amministrazione di sostegno, quale possibile misura alternativa, sotto questo riguardo, all’inabilitazione ex art. 415, comma 2, c.c..

Si tratterà di verificare se, nel singolo caso, siano da ritenere integrate le condizioni di accesso alla tutela, quali devono dirsi consistere nella sussistenza di un qualche deficit intellettivo che impedisca al soggetto di provvedere adeguatamente alla cura dei propri interessi: la prodigalità e l’abuso di alcolici o stupefacenti, e il gioco d’azzardo patologico potranno giustificare il provvedimento ex art. 405 c.c. soltanto nella misura in cui costituiscano, in concreto, il segnale di un’alterazione mentale o comunque di uno stato psichico depotenziato.

Il riferimento all’infermità o menomazione fisica, quale presupposto autonomo ai fini della nomina dell’amministratore di sostegno solleva un notevole problema, poiché, specie si tratti di una mera menomazione, anche se grave (es. perdita uso delle gambe), non si potrà mai arrivare ad una reale impossibilità di provvedere alla cura dei propri interessi, essendosi di fronte, al più, «ad un’inettitudine a gestirli direttamente».

Nonostante il tenore dell’art. 404 c.c., la presenza di un’infermità o menomazione fisica di per sé non sembra consentire l’apertura dell’amministrazione di sostegno, per quanto gravi possano essere gli ostacoli che una tale condizione determina nella (diretta) cura dei propri interessi da parte della persona.

Le menomazioni fisiche assumeranno rilevanza in tutte le situazioni in cui essi siano accompagnati da un qualche riflesso sulla psiche dell’individuo, determinando l’annullamento, il mancato sviluppo o comunque un’apprezzabile compromissione delle sue facoltà intellettive.

Va comunque evidenziato, in primo luogo, come proprio la portata ampia della formula normativa («infermità o menomazione fisica o psichica») consenta di attrarre entro la sfera applicativa dell’amministrazione di sostegno la zona grigia rappresentata da quegli stadi morbosi o di imperfetta funzionalità dell’organismo, i quali generino conseguenze di cui non possa escludersi, con certezza, che abbiano un riflesso sulla salute psichica dell’individuo.

In secondo luogo, si deve affermare che la nomina dell’amministratore di sostegno, proprio in virtù dell’applicazione ampia dell’istituto, sarà possibile anche rispetto a coloro che siano colpiti da una malattia o menomazione fisica, la quale, pur non avendo riflessi sulle facoltà intellettive della persona, la renda incapace di comunicare all’esterno i propri pensieri e il proprio volere, ma imprigionato nella sfera psichica dell’infermo, esige che questi non sia trattato diversamente, per quanto attiene alla possibilità di accedere all’amministrazione di sostegno, da colui che sia vittima di un disturbo mentale.

Sono certamente idonei a beneficiare della misura di protezione in esame anche il cieco e il sordo, almeno se tali dalla nascita o dalla prima infanzia.

Il rinvio all’art. 414 c.c., per il caso di completa incapacità alla cura dei propri interessi, è da intendere, in base alla mutata formula di tale disposto normativo, nel senso che l’interdizione, e anche l’inabilitazione, costituiscono forme di tutela alternative all’amministrazione di sostegno pure rispetto alla cecità e alla perdita dell’udito.

Ne deriva che il cieco e il sordo dalla nascita o dalla prima infanzia potranno essere sottoposti ad amministrazione di sostegno a meno che, la consistenza e complessità dei loro patrimoni consigli, ai fini di una protezione più adeguata, il ricorso agli istituti tradizionali, nel qual caso andrà pronunciata l’interdizione se manchi del tutto l’attitudine dell’interessato a provvedere a se stesso.

Quanto descritto si distacca rispetto alla soluzione interpretativa accolta dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritaria, le quali sono orientate a considerare sufficiente, ai fini dell’apertura dell’amministrazione di sostegno, anche una mera malattia o menomazione fisica che non comporti alcun deficit sul piano delle facoltà intellettive del soggetto.

L’ulteriore presupposto per l’apertura dell’amministrazione di sostegno si trova nell’«impossibilità di provvedere ai propri interessi».

Il giudice tutelare, una volta accertata la sussistenza di uno stato di infermità o di menomazione (psichica o con riflessi psichici), è tenuto a valutare se e in quale modo esso incida sull’attitudine di chi ne è colpito a gestire i propri affari e interessi. Un disturbo di lieve entità, tale da apparire inidoneo a compromettere l’autonomia del soggetto non permetterebbe di procedere alla nomina di un amministratore di sostegno.

Un problema suscitato dalla pratica è quello se l’inidoneità a provvedere a se stessi, quale conseguenza di uno stato morboso o di una menomazione, debba essere attuale nel momento in cui il giudice è chiamato a pronunciarsi. Al quesito pare si possa rispondere facilmente in modo

positivo perché l’attualità della menomazione sembra emergere in modo chiaro dal dettato dello stesso art. 404 c.c..

Il nuovo istituto, inoltre, non ha una portata esclusivamente rivolta alla tutela degli interessi patrimoniali di chi ci è sottoposto. L’incarico affidato all’amministratore di sostegno può estendersi anche a tutto quanto inerisce alla cura della persona del beneficiario, e cioè alla soddisfazione dei suoi bisogni di natura non patrimoniale.

La questione da chiedersi, a questo punto, è se l’incarico che il giudice tutelare conferisce all’amministratore possa essere limitato all’espletamento di funzioni attinenti alla sola cura personae, rimanendo, per contro, la capacità di agire del beneficiario con riguardo alla sfera dei suoi interessi economici. La gestione patrimoniale, invero, sembrerebbe costituire un tratto essenziale del nuovo istituto, come lo è per l’interdizione e l’inabilitazione, nel sistema di tutele costituito dalle quali l’amministrazione di sostegno è stata inserita: tutto ciò, fermo restando il potere del giudice di delimitare, quanto a quest’ultima, l’ambito degli atti rispetto ai quali viene meno la capacità del beneficiario e di indicare se all’amministratore, rispetto agli atti compresi nell’oggetto del suo incarico, spettino compiti sostitutivi ovvero di mera assistenza (art. 405, comma 5, nn. 3 e 4, c.c.).

L’orientamento prevalente considera l’amministrazione di sostegno come istituto, al cospetto di quelli tradizionali (disegnati intorno alla necessità di salvaguardare il patrimonio dell’incapace), primariamente rivolto a rimuovere gli ostacoli che impediscono al soggetto la realizzazione dei suoi interessi «esistenziali».

Tuttavia, sembra doversi considerare che la cura della persona non può ritenersi automaticamente connessa all’oggetto dell’incarico conferito all’amministratore, occorrendo piuttosto che gli sia affidata dal giudice tutelare il decreto ex art. 405 c.c..

Va comunque sottolineato che, nella dicotomia cura della persona e cura del patrimonio, l’entrata in vigore dell’istituto in esame ha segnato una novità rispetto al previgente sistema di tutele predisposto dall’ordinamento per i soggetti inidonei a provvedere ai propri interessi.

A questo riguardo, si osservi che, se tra le funzioni del tutore rientrava la cura della persona, questa invece risultava estranea ai compiti del curatore dell’inabilitato: con la conseguenza che mai poteva essere attribuita ad altri la cura della persona dell’interessato fintanto che questi avesse mantenuto, come nel caso dell’inabilitazione, un margine residuo di capacità.

Nella nuova misura di tutela, se è vero che essa consente anche «la realizzazione di interessi non aventi natura patrimoniale, nondimeno non solo appare possibile, ma anzi risulta inevitabile che, quando la cura della persona sia in concreto inclusa tra i compiti dell’amministratore, ciò avvenga in una situazione in cui al beneficiario è comunque conservata parte della capacità di agire».

Il giudice tutelare deve attenersi, nella amministrazione di sostegno, al criterio del minore sacrificio possibile per la capacità del soggetto privo di autonomia, mai potendosi giungere alla completa ablazione di codesta capacità e alla pratica equiparazione della nuova misura protettiva, nei suoi esiti concreti all’interdizione giudiziale.

Il sistema appena descritto permette dunque all’amministrazione di sostegno una applicazione ampia a quella persona che per una menomazione fisica o psichica non possa badare concretamente e realisticamente ai propri interessi. Una simile applicazione può dunque trovare spazio anche per il giocatore d’azzardo abituale che abbia dei riflessi patologici psichici evidenti, tali da non permettere allo stesso di far fronte ai propri bisogni in una piena capacità di agire.

A tale riguardo appare opportuno analizzare una decisione del Tribunale di Varese, decisa con decreto del 3 ottobre 2013, che, seppure in tema di oniomania, cioè di sindrome da shopping compulsivo, sembra possa trovare concreta applicazione la sua ratio anche al caso del giocatore patologico.

Al giudice tutelare di Varese viene fatta istanza per la nomina d’un amministratore di sostegno in favore di una persona afflitta da un bisogno incontrollato di fare acquisti che le ha provocato gravi danni finanziari e lavorativi: si chiede, con l’assenso della beneficiaria, un supporto protettivo e di sostegno giuridico per far fronte a tale difficoltà e riacquistare la capacità di risparmio e una gestione efficiente del reddito.

Il giudice varesino, rinvenuta nel caso dedotto un’ipotesi di c.d. «oniomania» (ovvero «sindrome da shopping compulsivo») e ritenuta questa ascrivibile allo stato d’incapacità legittimante la misura di sostegno, accoglie il ricorso e dispone un dettagliato piano per la cura del patrimonio e della persona.

Quest’ultimo aspetto assume particolare interesse nel decreto di nomina, che, muovendo dai principi di adeguatezza e di minore durata possibile della tutela, prevede un programma anche assistenziale e terapeutico, bipartito tra amministratore di sostegno e strutture sanitarie, finalizzato alla rieducazione del beneficiario e, in prospettiva, all’estinzione della misura.

Il provvedimento del giudice varesino recepisce i principi codificati dalla Convenzione di New York del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone con disabilità: si tratta, in particolare, dell’adeguatezza della misura alle condizioni della persona e del massimo contenimento della sua durata.

Un’esegesi ispirata allo stato di bisogno della persona, quale autentico e primario parametro dell’effettività della tutela giurisdizionale, induce a preferire sul piano dei valori e degli interessi tutelati una diversa sinonimia, che «individua nella durata minima una specifica declinazione del canone di adeguatezza, equivalente al tempo necessario e sufficiente ovvero congruo perché la misura sia realmente utile».

Un tale criterio sembra porsi in continuità con lo scopo della legge n. 6 del 2004 di realizzare una tutela con la minore limitazione possibile della capacità di agire del beneficiario, stavolta intesa in senso cronologico, oltre che quantitativo, in linea con la complessiva disciplina dell’amministrazione di sostegno, che descrive un istituto dagli effetti rebus sic stantibus.

In questa cornice valoriale si motiva un passaggio significativo del provvedimento varesino, perché in ragione di essa il giudice tutelare ritiene «necessaria oltre che opportuna l’introduzione di un percorso con il beneficiario, inteso a fargli riacquistare la propensione al risparmio»; infatti «il graduale riacquisto della capacità di gestire il denaro, ove associata ad una riduzione della propensione al consumo, favorirà un recupero delle piene capacità del beneficiario e saranno maturi i tempi per estinguere la misura».

Il sillogismo è completato dall’asserzione per cui il sostegno deve essere «necessariamente integrato di un supporto di tipo terapeutico o, comunque, assistenziale, che possa incidere laddove il solo risvolto giuridico si riveli insufficiente», richiedendo il coinvolgimento del medico curante dell’interessata e del Servizio territoriale locale per il contrasto alle dipendenze.

Se tali conclusioni sono riprodotte dal giudice tutelare in riferimento alle «concrete modalità operative» dell’amministrazione, la derivazione logica di un percorso riabilitativo necessario dai principi di adeguatezza e della minore durata possibile interessa, oltre che l’aspetto pratico, anche e soprattutto le funzioni astrattamente ascrivibili all’amministrazione di sostegno.

Per far sì che la misura risulti adeguata in relazione al fattore cronologico non appare sufficiente che il suo corso sia quello minimo necessario e dunque congruo nel caso di specie, ma occorre anche che la misura comprenda al suo interno gli strumenti idonei a rimuovere o, almeno, a migliorare la situazione di fatto che ne abbia giustificato l’adozione, così da incidere nel senso della contrazione della sua durata. Infatti, il programma del giudice varesino è completato da un sistema di controllo a breve periodicità, con obbligo di rendiconto sui progressi dell’amministrazione.

Pertanto, attraverso un’interpretazione evolutiva dell’amministrazione di sostegno, essa si arricchirebbe di una funzione «terapeutica» oltre che assistenziale; «non solo plasmata sul caso concreto, ma essa stessa idonea a incidere sulla situazione di fatto che ne abbia originato l’esigenza, contribuendo a migliorarla e, se possibile, ad eliminarla».

Tale funzione troverebbe spazio in tutti i casi nei quali l’amministrazione di sostegno sia rivolta a forme di disagio suscettibili di guarigione o di miglioramento, proprio come la situazione in cui può versare un giocatore patologico, senz’altro compatibile con la norma di cui all’art. 404 c.c., riferita anche alla incapacità temporanea. L’applicazione suddetta si lascerebbe apprezzare per l’obiettivo perseguito di aiutare il soggetto debole a superare la propria inabilità, nell’auspicio di una recuperata autonomia.

Tuttavia, occorre domandarsi se una simile finalità possa trovare piena ed effettiva realizzazione, tenuto conto dei principi e limiti che regolano l’attuazione del sostegno con riguardo, soprattutto, alla cura della persona.

Maggiori perplessità, rispetto alla funzione riabilitativa dell’amministrazione di sostegno, pone l’invito rivolto dal giudice tutelare agli enti di pubblica assistenza ai sensi degli artt. 344 e 404 c.c.

Il provvedimento giudiziale richiede agli organi sanitari la «presa in carico» del beneficiario e l’erogazione del servizio di sostegno e di recupero anche psicologico richiesto dal caso concreto.

In primo luogo sembra doversi dubitare della giustificazione giuridica di un ordine giudiziale sostitutivo della libera autodeterminazione di un soggetto, che conservi una specifica capacità di intendere e di volere per il conseguimento del medesimo effetto: le norme interne, anche di rango costituzionale e i principi sovranazionali, vigenti in materia, descrivono il consenso del paziente quale presupposto imprescindibile del trattamento sanitario, il quale può essere disposto obbligatoriamente nelle sole tassative ipotesi previste dalla legge a tutela di un interesse generale e comunque nel rispetto della persona.

Le garanzie sottese all’istituto inducono a ritenere che pure tale prescrizione del decreto, per quanto riferita alla cura della persona, debba leggersi alla luce del principio di partecipazione del beneficiario al programma di sostegno, conseguendone che l’amministratore sia legittimato e tenuto all’esercizio dei propri poteri sempre condizionatamente al perdurare del consenso da parte del primo, che potrà validamente esprimere in ogni momento un dissenso ovvero revocare l’assenso precedentemente dato. Da un lato, dovrebbe dunque «escludersi tout court l’ammissibilità di un provvedimento meramente surrogatorio della volontà del soggetto che sia in grado di esprimerla o emesso in assenza di una specifica incapacità inerente al suo contenuto».

«Dall’altro lato, l’efficacia del decreto di nomina pare diversamente atteggiarsi a seconda dei molteplici e diversi contenuti dei quali esso può legittimamente riempirsi e delle situazioni sostanziali che ne costituiscano la premessa, con riflessi anche sul grado di effettività e di “certezza” del sostegno».

Sul piano dei risultati pratici attesi, accanto a disposizioni, il cui effetto sostanzialmente si produce con l’emanazione del decreto, quali propriamente sono quelle immediatamente dirette alla cura del patrimonio, se ne osservano altre, «la cui concreta efficacia finale per il beneficiario non può che dipendere da fattori esterni concomitanti o successivi, qual è appunto la collaborazione dell’interessato quando si tratti della cura personae e, nello specifico, quando questa sia rivolta ad un percorso di recupero di capacità».

Su di un piano trasversale, che interessa anche il fronte delle garanzie, «non può escludersi a priori che all’interno del medesimo decreto di nomina disposizioni idonee a produrre effetti costitutivi nella sfera giuridica del soggetto debole siano affiancate da altre, cui dovrebbe riconoscersi una portata meramente “propositiva”. Perché possa trattarsi delle prime, i prioritari valori coinvolti da questo strumento impongono che per ciascuna sussistano in concreto tutti gli specifici presupposti in ragione dei quali il sistema di protezione dei soggetti deboli e la legge in generale consentono di incidere su diritti fondamentali della persona».

Al di là delle problematiche sommariamente descritte, il provvedimento del giudice di Varese apre la porta ad una nuova valutazione della tutela dell’amministrazione di sostegno, in forza del quale, in tutte le ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 415 c.c., lo strumento di elezione per realizzare un’autentica protezione attiva e passiva della persona non autonoma sembra essere proprio l’amministrazione di sostegno. Essa può quindi essere utilmente applicabile in tutte le c.d. «nuove patologie», quali anche la dipendenza da gioco d’azzardo, attraverso un provvedimento personalizzato, modulabile in base alle necessità del caso concreto.

di Damiano Marinelli e Ettore William Di Mauro